Domenica significa anche relax, significa che mi posso permettere di indugiare un po' fra le lenzuola, che posso anche perdere un po' di tempo divagando dopo il caffè, che l'urgenza della vita non mi assale come durante la settimana.
Poter scrivere qualche riga, anche se la casa è in disordine e so bene che se non porterò io giù la cesta dei panni da lavare nessuno lo farà, se non li metterò in lavatrice, scoppierà il dramma della maglietta da pallavolo ancora sporca, del pantalone preferito che non si può indossare.
Domenica significa anche pranzo di famiglia e dunque non dovrò cucinare ma ci saranno due primi e due secondi, contorni e dolci. È un vizio e un privilegio domenicale.
Un tempo significava anche messa festiva, alla quale giungevo sempre in ritardo, dopo urla e litigate poiché mio marito non era mai pronto e i miei figli bisticciavano, con una fatica enorme per vestirli e sistemarli perché fossero presentabili, mentre io arrivavo come una pellegrina che aveva appena terminato il "Camino de Santiago".
Ora sono cresciuti, si arrangiano di più, a volte non vogliono venire, a volte io vado di sabato.
Le mie domeniche sono però anche giornate di lavoro: quando ho pacchi di verifiche e testi da correggere sul tavolo, come oggi, devo mettere in conto almeno tre ore di correzioni con qualche pausa di aria per il cervello e una passeggiata al parco vicino a casa.
Le domeniche più belle però sono quelle delle gite con le amiche: le ricordo tutte e purtroppo sono sempre più rare per la concentrazione di impegni e la difficoltà logistica di incontrarci, vivendo alcune di loro anche in città lontane.
Da bambina, di domenica si andava alla casa in collina, era un'abitudine. La casa è un edificio di inizio Novecento a tre piani in pietra e calce bianca restaurato alla buona negli anni '70, dove avevano vissuto mio padre e la sua famiglia fino alla morte del nonno e dunque disabitata già alla fine degli anni '50. Immersa nel verde del Parco naturale delle Foreste Casentinesi, era riconoscibile da lontano per il tetto rosso e i cipressi che le facevano un semicerchio intorno.
Fuori, il grande tavolo di cemento sotto al noce dove si pranza a tutti insieme.
Lì mi era possibile tutto... fuorché farmi male: potevo correre, saltare, fare finta di volare, salire sugli alberi, giocare a nascondino, andare in altalena, cercare il fantasma "formaggino"...
Ero quasi sempre la più grande dei cugini e altri bambini ospiti e dunque proponevo o imponevo i giochi. Costringevo tutti ad entrare nel club della casa sull'albero che mio padre mi aveva costruito su di un pero selvatico, tenevo l'elenco dei soci e lo aggiornavo con zelo. Oppure, li convincevo a recitare di notte, nel giardino buio sotto casa, scene patetiche che avevo ideato e con una torcia li illuminavo, fingendo di essere un regista e di effettuare riprese cinematografiche.
D'estate si scendeva la strada ghiaiata fino al fiume, un piccolo torrente ostruito da rami e sassi franati. Ci immergevamo nell' acqua bassa e gelida, fra i sassi, per catturare i girini che imprigionavano in qualche diga da noi costruita in acqua oppure facevamo il bagno, estremamente tonificante per placare un po' le nostre energie di bambini che non conoscevano né cellulari, né i videogiochi. Lassù non vi era neppure la televisione.
Pare trascorsa una vita... Sono trascorsi circa 35 anni da quando il suono delle nostre voci di bambini felici è sparito per sempre.
Mio padre si ammalò, iniziò a frequentare medici e ospedali, a trascorrere anche lunghi periodi ricoverato e non giunse alla seconda estate.
Intanto io crescevo e, per forza e dovere, cercavo di diventare adulta.
Ancora oggi associo alla casa di collina che ora frequento pochissimo, un tempo meraviglioso di libertà e spensieratezza in compagnia della mia famiglia e di zii, cugini e amici, un tempo di vera festa.